S.
è una MammaMatta che, con amore, come tante altre mamme, ha accolto in adozione suo
figlio, “un
bambino maltrattato, abbandonato, ignorato”, davanti
al quale è stato difficile “non pensare
almeno per un attimo chi me lo ha fatto fare”. Ma con lui S. ha deciso di accogliere e abbracciare anche il suo vissuto
familiare, le sue origini di cui oggi il ragazzino va “fiero, come
del senso di appartenenza alla sua famiglia di origine, che nel bene
e nel male è stato l’inizio di tutto, ma che soprattutto è un
passaggio importante nella costruzione della sua identità”.
“Posso
definirmi, più che una MammaMatta,
una mamma innamorata e guerriera. Ma d’altronde sono la mamma di un
ragazzo cresciuto in un paese dove l’inverno è una cosa seria ed
ai bambini quando si fanno male gli danno il resto. Se ci aggiungi la
prima parte dell’infanzia con genitori alcolisti e la seconda in un
orfanotrofio si riesce ad immaginare quanto sia spessa la corazza di
mio figlio. E quanto anche io mi sia dovuta corazzare, tra week end
sulla neve di una città del lontano est europa, infiniti scali
osteggiati da piste ghiacciate, pomeriggi in orfanotrofio e libere
uscite con gruppi di bambini al seguito avidi di libertà, attese
felici dei loro arrivi in Italia con valigie vuote e le devastanti
partenze in cui a rimanere vuote erano le case che i nostri cuccioli
avevano riempito di presenza e sentimenti.
L’idea
dell’adozione è partita da lui, sotto un lenzuolo tra rabbia e
lacrime prima di una partenza. Ho affrontato l’imprevedibile, il
percorso dell’idoneità in Tribunale, incontrato persone
fantastiche nei servizi e nelle aule, poi la fase atroce del suo
paese. Il formalismo crudele non certo facilitato dai documenti
sbagliati mille e mille volte in ognuno degli uffici deputati in
Italia, il rifiuto di quelli giusti per un colore sbagliato o un
timbro sbafato, i termini che scadevano, il primo no, le leggi che
cambiavano, la famiglia biologica che si riaffaccia. Ogni volta più
difficile separarsi, il contenuto della parola mamma diventa
sostanza, entra in circolo e si impone sulla genetica, non ricordo
più di non averlo partorito, somiglia a me somiglia al nonno. Mi
incontro con la sua famiglia. Sua madre mi abbraccia e mi dice grazie
di volergli bene, io ho sbagliato tutto. Suo padre mi guarda con
occhi di ghiaccio, gli stessi di mio figlio, sua nonna con occhi
tristi. Sua sorella cerca la mia alleanza, ed io la sua. Chissà se
questa famiglia poteva essere aiutata, probabilmente sì, ma le
restrizioni imposte loro dalla Legge ed il lungo tempo che lui
avrebbe dovuto ancora trascorrere in un orfanotrofio senza una mamma,
senza essere importante per qualcuno, senza i pericoli della vita in
comunità, senza che qualcuno avesse fiducia nelle sue possibilità,
non lasciano spazio a ripensamenti. Diventa ufficialmente mio figlio
alla vigilia di un freddo Natale di qualche anno fa, non è facile
per lui, e neanche per me, lasciare il suo paese, due mesi dopo. I
suoi pochi amici ancora in istituto, le mamuske più buone. Prima di
partire andiamo a casa della nonna, con il tetto di lamiera, dove si
rifugiava di notte quando i suoi genitori diventavano pericolosi,
dove non c’è stato un posto per lui ma ci sono le sue foto in
salotto e nell’album di famiglia.
Mio
figlio ha una scheda sanitaria ed una reputazione da bambino con
limitate possibilità di apprendimento, che a scuola veniva lasciato
girare nei corridoi perché tanto avrebbe potuto imparare poco. In
Italia inizia la scuola con bambini molto più piccoli e piano piano
sboccia, e le sue possibilità e capacità si affacciano ogni giorno
sovvertendo ogni previsione ed ogni diagnosi. L’intelligenza a
volte rimane imprigionata nella paura, nelle privazioni, nel dolore,
nel bisogno di non pensare.
Suo
padre muore poco dopo il nostro arrivo in Italia. Io piango e lui mi
dice “perché sei triste, lui mi ha rovinato la vita, l’ha
rovinata a tutti”. Ma io piango per lui, per mio figlio, perché
non ha avuto il modo, né lo avrà, neanche di rimproveragli quello
che non gli ha dato e anche un po’ per quest’uomo che forse è
stato anche lui un bambino poco amato. Sua madre ha un’altra vita,
non lo cerca, né lui cerca lei. Sua nonna invecchia, si lamenta che
lui la chiama poco, inizialmente intervenivo ma adesso lascio a lui
gestire il suo rapporto con lei. Quella che non lo molla è sua
sorella. Lei vuole un rapporto con lui, lo pretende, lo rimprovera,
lo ottiene. Lo rende zio. A volte è intrusiva, giudicante, altre
richiedente. Lei non ha avuto una famiglia affettuosa, lei la sua
famiglia l’ha costruita dalle ceneri della sua vita e pretende le
mie attenzioni, il mio aiuto, vuole in qualche modo essere risarcita
anche lei. Viene in Italia, a Milano, con la sua bimba ed una
cuginetta di entrambi, di cui si prende cura, ed il suo compagno. Li
raggiungiamo, mio figlio conosce sua nipote, cominciamo un cammino
come famiglia. Vengono a trovarci a Roma, passiamo insieme una
settimana di afosa quotidianità. Lei è rude, raramente abbassa la
guardia, ma mi ringrazia e mi confessa che dopo anni sente di nuovo
di avere un fratello. La sua bimba mi chiama “babuska”, nonna.
Adesso vivono in Polonia e tra due settimane andiamo a trovarli.
Quando
è arrivato mio figlio era un giocattolo rotto. Non è facile
penetrare le difese di un bambino maltrattato, abbandonato, ignorato.
Mettersi in attesa, non cedere alla frustrazione, non arrendersi. Non
pensare almeno per un attimo chi me lo ha fatto fare. Non mostrarsi
più solidi che compassionevoli. Non cercare di farsi amare elargendo
regali piuttosto che attenzione, equilibrio, regole. Non è facile,
ancora di più forse, ignorare ed accettare gli scetticismi e le
provocazioni di chi non approva o non capisce la tua scelta e vi
vorrebbe e vi percepisce diversi da una vera mamma e da un vero
figlio.
Mio
figlio adesso è sereno. Quando è arrivato in Italia non riuscivo a
dargli una carezza neanche durante il sonno, adesso mi abbraccia e mi
dice ti amo mille volte al giorno. Mi scrive messaggi con scritto
“mamma” solo per imprimere questa parola nel suo quotidiano, per
leggerla, per immaginarla. Si sta allineando alla sua età, incerto
tra il desiderio di autonomia e la gioia e l’incanto di essere
accudito da qualcuno. Si sta pian piano di nuovo allontanando da me,
ma stavolta per incamminarsi verso la sua vita da adulto senza
vergognarsi ed anzi carico e forte del mio amore, ma anche
consapevole e fedele alle sue radici, di cui è fiero, ed al senso di
appartenenza alla sua famiglia di origine, che nel bene e nel male è
stato l’inizio di tutto, ma che soprattutto è un passaggio
importante nella costruzione della sua identità”.
Una
MammaMatta
Bellissima storia ❤️ io sono solo all’inizio
Bello e vero il racconto del disgelo di tuo figlio. Conosco questa lunga stagione.